sei di vada se...

mercoledì 14 ottobre 2020

sesto 2/3

 sesto 2/3

Nel pomeriggio, sulla spiaggia, Franco arriva un po' più tardi del solito, accompagnato da una ragazza che non conosciamo. Si chiama Chiara e, dopo le presentazioni, si unisce all'allegra brigata. Come lei stessa ci comunica, è arrivata da Firenze questa mattina, è in villeggiatura con i genitori ed occupa un piccolo appartamento in affitto nelle vicinanze dell'abitazione di Franco che, puntualmente, non si è fatto sfuggire l'occasione pensando bene di chiederle di aggregarsi al nostro gruppo. Ha la nostra età, ha superato brillantemente gli esami e sembra che non le dispiaccia unirsi a noi con il beneplacito dei maschietti, visto l'aspetto piuttosto attraente; le femminucce, al contrario, non sembrano esaltarsi, almeno inizialmente, all'intrusione di una possibile antagonista nel catturare le attenzioni dei rappresentanti del sesso opposto. I capelli biondi, alla spalla, incorniciano il viso ovale sul quale risaltano occhi celesti, naso impercettibilmente aquilino e labbra sottili. Stende l'asciugamano colorato nelle vicinanze dei nostri, si toglie la maglietta, i bermuda bianchi mettendo in mostra un costumino nero che spicca sul fisico ben modellato e sulla pelle candida, per niente abbronzata, tipica dei forestieri arrivati da poco. Come mosche al miele la circondiamo curiosi, subissandola di domande sull'età, sulla sua città di provenienza, sulla scuola insomma, ci dimostriamo piuttosto invadenti al limite dell’indiscrezione. Al contrario, Chiara dimostra di gradire il fatto di essere in primo piano e soddisfa volentieri le nostre domande anche se con atteggiamenti, a mio modo di vedere, eccessivamente manierati. Un segno d'intesa con Martina e Fulvia conferma le mie impressioni negative sul comportamento della nuova arrivata. La nostra comitiva non è fatta per dive del cinema e ritengo che dovrà adeguarsi alle regole della nostra convivenza comune, se vorrà attecchire con noi. 

«Ho avuto un'idea!» - dichiara improvvisamente Luca eccitato - «Visto che in spiaggia è difficile scovare qualcosa di nuovo da fare, perché non chiediamo ad Angiolino, il pescatore… si, insomma, a Lino, di accompagnarci alle secche del fanale con la sua paranza, uno di questi giorni?»

«Potrebbe essere una buona iniziativa,» - lo incoraggia Mimmo - «ma non credo che Lino potrà, deve sfruttare al massimo la buona stagione per la pesca, è il suo lavoro, in fin dei conti.»

«Non dico mica che deve farlo gratis!» - ribatte Luca - «Potremmo chiedere quanto ci viene a costare una gita del genere e dividiamo la spesa. In fondo Lino si è sempre dimostrato molto disponibile e simpatico nei nostri confronti e ritengo che sarà felice di accontentarci, a scanso d'insormontabili impedimenti.»

«Va bene, chiedere non costa nulla, al limite ci risponderà che non è possibile!» - sentenzia Feo.

«Ragazzi, calma! Non so voi, ma io dovrò chiedere l'autorizzazione ai miei, prima di prendere una decisione.» - ci annuncia, timorosa, Lauretta - «Staremo fuori per tutto il giorno, in alto mare, per giunta, a diverse miglia dalla costa: non sono sicura che i miei me lo permetteranno!»

«Il problema non è solo tuo,» - la conforta Tania - «penso che tutti dovremo domandare il permesso ai genitori, si tratta di una gita quantomeno stravagante. Il fatto che Lino sia conosciuto e rispettato da tutti, in paese, gioca in nostro favore, ma ciò non significa che, automaticamente, i nostri genitori ci affidino alle sue premure per una giornata intera in alto mare.»

«Giusta osservazione!» - conferma Luca - «Intanto chiediamo la disponibilità a Lino, poi chiederemo ai genitori.» - e si alza.

«Scusate ragazzi,» - prendo io la parola - «oggi è lunedì ed io ho solo questa settimana di vacanza, sabato inizio con il lavoro presso la pensione e sarà dura riuscire ad ottenere una giornata intera di permesso, siamo in alta stagione e sarà piena di turisti. Avrei piacere di partecipare all'escursione, ma se non sarà prima di venerdì…» - noto che Martina mi fissa seria.

«Se è per questo anch'io inizio sabato venturo.» - dichiara Mimmo - «I bagni Arenile attendono il mio supporto di "aiuto bagnino" e sono nelle tue identiche condizioni»

«Secondo il mio parere, andiamo tutti o nessuno» - sentenzia Barbara - «e se vogliamo andare dobbiamo impegnarci per organizzare tutto prima di sabato prossimo. Se mancherà qualcuno, sarà come un puzzle incompleto ed un'esperienza alle secche del fanale dobbiamo sperimentarla tutti assieme.»

«Ci stiamo ponendo dei problemi che ancora non sussistono.» - concludo io sorridendo - «Se Lino ci nega la possibilità di accompagnarci, addio escursione.»

Nel parlottio che segue il dibattito, si delibera di recarci da Lino per compiere il primo passo verso lo scoglio in mezzo al mare. La delegazione, composta da Feo, Luca, il promotore dell'iniziativa, e me, s'incammina verso la casetta del pescatore, al limite esterno della spiaggia, dove numerose reti da pesca sono stese al sole ad asciugare. Aggiriamo la casetta di mattoni rossi, il cui ingresso è rivolto dalla parte opposta al mare, e scoviamo la testa riccia di Lino, china su un groviglio di reti, che sta trasferendo da una grande tinozza di plastica verde ad un'altra simile. I piedi Lino, con il dorso nudo color cioccolata abbrustolito dal sole, tendono le maglie della rete che sta tentando di districare, mentre trattiene, tra i denti bianchissimi, una specie di spoletta, simile a quelle usate per tessere al telaio, su cui è avvolto del robusto filo di nylon pronto per riparare eventuali smagliature. Le sue mani e, più sorprendentemente, i suoi piedi prensili, maneggiano armonicamente le matasse di rete che, di volta in volta, escono da una delle due tinozze per passare velocemente all'altra. Il trave di corda della parte superiore della rete ed i galleggianti marroni scorrono rapidamente tra le sue agili ed abili mani callose, con movimenti decisi e ben definiti. Distratto dal sopraggiungere delle ombre, Lino alza la testa nella nostra direzione e, socchiudendo gli occhi per ripararsi dal riverbero del controluce, esibisce uno smagliante sorriso che illumina le guance abbronzate e punteggiate dalla barba incolta, senza abbandonare la spoletta che tiene tenacemente tra i denti.

«Cosa ci fate qui?» - farfuglia in dialetto Campano, senza smettere di lavorare con le mani, mentre la spoletta oscilla tra i denti - «Volete aiutarmi a districare le reti?»

«Lino, noi avremmo una richiesta da farti.» - esordisce Luca - «Vorremmo che ci tu portassi a fare una gita alle secche del Fanale!» - Chiede senza mezzi termini.

«Che vuoi dire? Volete venire un giorno a pescare con me?» - chiede per niente sorpreso - «Badate che io mi sveglio presto la mattina, certe volte non vado nemmeno a dormire, la sera, mentre voi siete abituati a fare le ore piccole e, la mattina, a tirare tardi a letto!»

«No, non desideriamo venire a pescare con te, ti chiediamo un passaggio in barca fino alle secche.» - chiarisco io.

«…e che ci fate voi tre al fanale per tutto il giorno?»

«Non siamo solo noi tre, saremmo una decina, forse di più» - lo informa Feo - «ci sarebbero anche le nostre amiche, genitori permettendo!»

Si ferma con le mani, si toglie di bocca la spoletta e ci osserva più attentamente:

«Ragazzi io con la barca mi ci guadagno il pane, perdere un giorno di pesca per accompagnare voi…»

«Non ti chiediamo di farlo gratis.» - Feo non lo lascia finire - «Siamo disposti a rifonderti del tempo perso…»

«Non mi sono spiegato bene,» - riprende lui - «vi ho visto crescere: quante volte vi ho sgridato perché facevate i tuffi dalla mia paranza ormeggiata al riparo degli scogli; se un giorno non venite alla spiaggia, mi preoccupo per paura che sia successo qualcosa di grave; fin dai tempi in cui eravate piccoli, i vostri schiamazzi hanno riempito le mie solitarie giornate spese a rammendare le reti sull'uscio di questa baracca. Chiedere dei soldi a voi sarebbe come chiederli ai miei figli. Intendevo dire che avrei solo bisogno di qualche giorno per prepararmi. In ogni caso, mi piacerebbe accontentarvi e sono sicuro che troverei il modo di organizzare la gita senza perdere del tutto la giornata di pesca ma…» - si sofferma, poi riprende - «Vi renderete conto di quanta responsabilità caricate le mie spalle e la coperta della mia paranza? Scorrazzare un carico di ragazzi nel fiore dell'età, a fare i pirati per il Mar Tirreno, al seguito di un vecchio pescatore rimbambito: no ragazzi, mi dispiace! Credetemi, dal profondo del cuore vorrei accontentarvi ma dovete capire che è una responsabilità troppo grande per le mie povere spalle curve. E poi non credo che i vostri genitori ci permetterebbero una cosa del genere: io non lo farei!» - conclude.

Proviamo a convincerlo, ma più insistiamo e più mi rendo conto che ha pienamente ragione, perciò salutiamo dispiaciuti allorché lui addenta la spoletta e si china di nuovo, malinconico, sulle due tinozze colme di reti da riparare.

Ritorniamo mesti sui nostri passi, gli altri già intuiscono che la richiesta non è andata a buon fine e che dovremo escogitare qualche altro espediente per rompere la monotonia della spiaggia.

Seduti in cerchio rimuginiamo sul da farsi, quando Chiara, la nuova arrivata, se ne esce con una trovata:

«Mio padre ama la pesca e forse conosce anche il vostro buon Lino, visto che ogni tanto è venuto a pescare anche in queste acque: potrei chiedere se ci accompagna lui!» - propone decisa - «Ha un amico con il quale organizza sempre delle battute: potrebbero approfittare dell'aiuto di Lino e nel frattempo sollevarlo da un po' di responsabilità.»

La battuta non viene accolta con entusiasmo, la presenza dei genitori non ci esalta molto ma, ripensando che c'è in gioco l'avventura in mare aperto, non la consideriamo un'idea così malvagia quindi l'assemblea decide di ritornare alla carica con l'amico pescatore. Nel frattempo Chiara ha guadagnato in stima e considerazione.

«Lino, siamo di nuovo noi.»

Non solleva neanche la testa dal lavoro che sta facendo:

«Ragazzi sono veramente spiacente…»

«Ascolta: potremmo chiedere ad un paio dei nostri genitori di accompagnarci…» - e Luca gli propone la prospettiva manifestata da Chiara.

Lino alza la testa:

«Domattina vi va bene?» - ci comunica sorridendo.

Gridiamo per la contentezza, ma lui ci calma immediatamente:

«Era solo una battuta, ma ritengo che si possa fare. Indagate con i vostri genitori e scoprite chi è disposto ad accompagnarci, poi ne riparliamo.» - ci comunica fiducioso.

Con passo lesto ritorniamo in spiaggia con le facce che tradiscono gioia per il parziale successo ottenuto, non ci rimane che saggiare la disponibilità del padre di Chiara, del suo amico e, in caso di risposta affermativa, metterli in contatto con il pescatore. Durante la passeggiata di ritorno dal mare, ci prefiguriamo già la gita in barca come se tutto fosse organizzato e dovessimo partire l'indomani mattina: chi vuole portare la canna da pesca, chi il bolentino, chi maschera e pinne e chi il fucile subacqueo. Con la fantasia siamo già in mezzo al mare. 

Dopo cena, l'appuntamento è nelle vicinanze del mitico campino dove sono installate alcune giostre e baracconi disposti a piccolo Luna Park. Come attrazioni non è il massimo ma ci passiamo volentieri la serata, ogni tanto.

La pista dell'autoscontro, senz'altro la più frequentata delle attrazioni, è stata assemblata in corrispondenza del lato lungo del campino; è illuminata da luci al neon colorate e sulla piattaforma di acciaio sfrecciano bolidi dai colori sgargianti alimentati da corrente attraverso un palo che sfiora una rete elettrificata sospesa ad un paio di metri di altezza dalla pista. La sicurezza delle piccole automobili è garantita da una voluminosa ciambella di gomma nera che attutisce i violenti urti cui vengono sottoposte da piloti in erba più somiglianti a sfasciacarrozze che non a veri e propri collaudatori. Un equipaggio composto da sole ragazze diventa, naturalmente, il bersaglio preferito della giostra: la loro vetturetta viene sbatacchiata a destra e a manca da aggressivi piloti del sesso opposto ai quali esse rispondono con grida di apparente terrore insufficienti a celare una vistosa soddisfazione. Il marciapiede d'alluminio, che circonda la pista, è costantemente gremito di ragazzi d’entrambi i sessi che, con il gettone in mano, attendono di occupare l’abitacolo spartano di uno dei piccoli bolidi colorati. Musica moderna a volume altissimo pervade costantemente l’atmosfera circostante. Martina ed io non amiamo molto questo tipo di attrazione ed alterniamo rarissimi giri di pista a lunghe soste ai box, per usare un termine automobilistico, durante i quali preferiamo limitarci ad osservare chi se le da di santa ragione piuttosto che essere protagonisti del caotico traffico. Flipper, al contrario, in assoluta sintonia con la sua indole irruente, è uno dei più accaniti sostenitori dell'autoscontro, ha sempre le tasche piene di gettoni, pronto a trasformarsi in fretta in pirata della strada, attaccando impetuosamente tutto ciò che trova sul suo cammino. Anche Franco, di solito, è un abituale frequentatore della pista d'acciaio, ma stasera ha altro cui pensare: è in marcatura stretta su Chiara e non le toglie gli occhi di dosso, anche se lei non dimostra altrettanto interesse per lui.

La giostra volgarmente denominata del calcio-in-culo si trova sulla destra, rispetto all’autoscontro, ed occupa un ampio spiazzo necessario affinché i seggiolini, appesi alla struttura centrale con quattro robuste catene d’acciaio ciascuno, possano girare vorticosamente attorno ad essa senza colpire i passanti. La zona è comprensibilmente recintata in maniera opportuna da solide transenne mobili, poiché nessuno deve poter attraversare il raggio d’azione della giostra, neppure accidentalmente. Nel vorticare intorno alla giostra, i partecipanti, a coppie che occupano seggiolini consecutivi, si lanciano a vicenda all’indirizzo di un pallone, appeso alla sommità di un alto palo, dal quale penzola un fiocco rosso molto appariscente. In genere sul seggiolino anteriore, quello che viene lanciato verso il pallone, siede il componente più leggero della coppia e, più frequentemente, una ragazza che vola strillando verso il bersaglio nell’intento di abbrancare al volo il fiocco ed acquisire, per la coppia, il diritto ad un’ulteriore giro gratuito. Noi siamo abbastanza affiatati, in questo gioco ed io, in particolare, adoro le grida di Martina, quando vola in direzione del fiocco sporgendosi dal seggiolino con il braccio destro proteso verso l’esterno. La nostra abilità consiste nello sfruttare al meglio la forza centrifuga impressa ai seggiolini dalla giostra che rotea a velocità vorticosa cosicché, spesso, riusciamo a raggiungere lo scopo meritandoci un addizionale passaggio. 

Dalla parte opposta del Luna Park, il reparto “piccoli” ospita un simpatico trenino trainato da una locomotiva rossa la cui parte anteriore è costituita da un sorridente faccione con guance rubiconde, occhi grandi e naso “a patata” che ricorda il Mastro Geppetto protagonista del Pinocchio di Collodi. La ferrovia è recintata da una staccionata a stecche dipinte con colori sgargianti. Al suo interno, il capotreno manovra magistralmente la locomotiva lungo il breve circuito di strada ferrata, attirando l’attenzione dei bambini presenti allorché percuote un campanaccio in ottone lucidissimo che emette rintocchi, simili a quelli delle mucche al pascolo, quando viene percosso dal battaglio al quale è appeso un nastro blu. La stessa atmosfera regna sulla giostra situata nelle vicinanze del trenino: un camion dei pompieri rosso fiammante, un elefantino rosa, la diligenza del Far West, una moto con sidecar, un cavalluccio marino e diversi cavalli, dal baio al roano, abbelliscono il piano inferiore esterno della giostra mentre un’astronave, un aereo supersonico, un disco volante, un’oca gigante ed un’aquila reale s’innalzano, per poco più di un metro e mezzo, dal pilastro centrale ad opera di robusti pistoni comandati idraulicamente. Le facce sorridenti dei bambini seduti sui vagoni del treno o nelle carrozzine della giostra sono di per se uno spettacolo gioioso, accentuato dalle espressioni soddisfatte degli attenti genitori che assistono beati alle evoluzioni, non togliendo loro gli occhi di dosso neanche per un momento.

Alla squallida baracca del tiro a segno, dipinta di celeste, ma per niente arredata, un’altissima bionda molto attraente, anche se con la faccia eccessivamente truccata, attira l’attenzione dei passanti per un colpo all’indirizzo di una speciale macchina fotografica che, in caso di bersaglio centrato, scatta una fotografia dallo sviluppo istantaneo al tiratore ed al suo eventuale accompagnatore. Io sono riuscito a colpire il pulsante che comanda l’otturatore della macchina fotografica e l’istantanea mi ritrae in una posa ridicola, con la carabina imbracciata, l’atteggiamento impegnato ed un occhio chiuso per prendere la mira sul bersaglio; l’espressione di Martina, al mio fianco, non è per niente ridicola, anzi l’improvvisa luce del flash infonde alla sua faccia un’aura quasi irreale che rapisce ancor di più i miei sensi, come se ce ne fosse bisogno.

...continua

domenica 5 marzo 2017

sesto 1 di 3

Sesto 1/3





                È giunta l'ultima settimana di un Giugno che difficilmente la mia memoria potrà dimenticare. Ho vissuto più esperienze esaltanti nell'ultimo mese che in tutti e quattordici gli anni della mia vita.
Mi sono svegliato prima del solito, stamattina, in quanto devo provvedere a formalizzare l'iscrizione alla Scuola Media Superiore. Rievoco con soddisfazione il recente passato: il primo aperitivo da Doriano, la cena con la terza "A" dallo Zingaro, Martina, gli esami, il motorino e, stamattina, un altro passo così importante.
                Tra breve passerò a prendere Martina; poi appuntamento alle dieci alla fermata dell'autobus, in piazza, con Feo e Fulvia per la missione "S.M.S.", Scuola Media Superiore. Potrei usufruire del potente due ruote ma gli altri, non ancora motorizzati, dovrebbero prendere l'autobus e non desidero assolutamente separarmi da loro.
Indugio ancora un po' sul letto, senza lenzuolo, a dorso nudo, e provo ad immaginarmi Martina nella stessa mia situazione con il solo pigiama leggero o con una camicia da notte di cotone senza nient'altro in dosso a parte, forse, le mutandine. Scaccio pensieri maliziosi e me la figuro sul letto: ho optato per un pigiama chiaro, color panna, con rari fiorellini turchesi, nella semioscurità della sua cameretta, pochi istanti prima di svegliarsi: distesa in avanti, con la gamba sinistra modestamente piegata verso l'alto e l'altra distesa, il braccio destro abbandonato lungo il corpo e l'altro che quasi le cinge la testa, i lunghi capelli bruni, morbidi come seta, scarruffati e sparpagliati per tutto il cuscino a coprirle quasi completamente il volto. Occhi serrati con le lunghe ciglia immobili, labbra leggermente dischiuse. Si muove, si gira lentamente fino ad assumere la posizione supina, accenna uno sbadiglio, mentre le membra addormentate cercano ristoro in una plastica distensione che le liberi dal torpore della notte appena trascorsa. Sulla delicata pelle del viso, le tracce rosee lasciate dalle pieghe del cuscino, disegnano una sorta di mappa sui cui è tracciato il percorso per arrivare al tesoro, costituito dalle gemme dei suoi occhi che magicamente si aprono ad un nuovo giorno. Sto sognando ad occhi aperti, con lo sguardo fisso sul soffitto, quando una voce familiare proveniente dalla cucina, mi riporta alla realtà:
«Alzati o farai tardi per il pullman!»
La tapparella della finestra è stata preventivamente aperta da mia madre tuttavia, dalla luce opaca che pervade la stanza, sembra che non goderemo di una bella giornata. Mi alzo, mi affaccio, qualche nuvola offusca il sole che stenta ad aprirsi un varco, ma potrebbe anche trattarsi di foschia mattutina, caratteristica di questo periodo, generata dall'evaporazione dell'umidità notturna. In quel caso, nell'arco di mezz'ora, l'astro infuocato tornerà a risplendere spavaldo, altrimenti dovremo inventarci qualcosa di divertente per passare la giornata.
                Una doccia tiepida mi sveglia definitivamente e, poco dopo, la solita abbondante colazione fornisce al mio corpo il combustibile giusto per arrivare senza difficoltà all'ora di pranzo. Mi vesto con calma, cerco, nel cassetto della scrivania, l’Attestato di Licenza Media recentemente ritirato presso la Scuola Media Dante Alighieri ed altri documenti necessari all'iscrizione, saluto e mi avvio per le scale.
Faccio appena in tempo ad uscire dal cancello che scorgo Martina in fondo alle scale e sta anche lei uscendo: sincronizzati alla perfezione come cronografi Svizzeri. A metà strada incontro un sorriso radioso, tipico della sua estrema semplicità e trasparenza, che preannuncia un'altra giornata contrassegnata dalla sua magnifica compagnia.
  C'incamminiamo e, con qualche minuto d'anticipo giungiamo alla fermata del pullman che ci condurrà al villaggio scolastico dove sono concentrati i vari istituti di Scuola Media Superiore; siamo momentaneamente da soli, Feo e Fulvia devono ancora arrivare, ma sarà questione di pochi minuti. Ci sediamo sugli ampi scalini del laboratorio di sartoria che si trova in prossimità della fermata e percepisco la calorosa vicinanza di Martina che si è accostata al mio fianco destro. Ho i gomiti appoggiati sulle ginocchia piegate, laddove lei ha assunto una posa più plastica e pudica con i piedi sullo scalino più basso e le gambe, strettamente unite e limitatamente flesse, da perfetta signorina perbene; con un gesto naturale della mano sinistra, prende la mia destra ed entrambe vanno a celarsi nel piccolo interstizio tra la mia gamba e la sua. Nel frattempo il sole sta cercando di scardinare la tenace resistenza della nuvolaglia circostante ed io inizio a parlare:
«Sai che stamattina, al risveglio, mi sono intrattenuto qualche minuto a letto, supino, con le braccia incrociate dietro la testa e lo sguardo concentrato su un punto indefinito del soffitto; la mia mente ha preso a fantasticare ed ho immaginato te nella mia stessa situazione.»
Mi guarda con aria tra lo stupito ed il corrucciato, nell’attesa di mie ulteriori rivelazioni sull'argomento.
«…eri completamente nuda nel letto arruffato, distesa sul dorso, bellissima e disponibile ed io sono entrato improvvisamente nella stanza spalancando la porta con irruenza…» - una pausa studiata per assistere alla sua reazione, mentre dentro di me prefiguro una scenata con tanto di meritate parolacce dal "porco" al "maniaco sessuale", e sogghigno sarcastico.
Niente, silenzio assoluto! Solo un filo d'ombra nei suoi occhi adamantini.
Feo e Fulvia sono ormai a due passi da noi ed il loro arrivo interrompe temporaneamente la mia disquisizione.
«Buongiorno!» - ci salutano quasi all'unisono.
Contraccambiamo il saluto e l'autobus arriva puntuale, si ferma esattamente al centro delle strisce gialle dipinte sull'asfalto, che delimitano l'area riservata alla fermata e, con uno sbuffo d'aria dell'impianto pneumatico, si aprono le porte posteriori a soffietto, quelle riservate alla salita dei passeggeri. Saliamo il paio di alti scalini, il fattorino stacca quattro biglietti e ci mettiamo seduti sulle comode poltroncine imbottite: Martina ed io troviamo posto nella parte posteriore sulla sinistra dell'autobus mentre gli altri due compiono per la mano ulteriori tre o quattro passi prima di accomodarsi a loro volta, a destra del corridoio.
Pochi minuti e, con piglio severo, Martina chiede lumi sulle mie mattiniere fantasticherie:
«Perché non vai avanti col tuo racconto?» - chiede seria con gli occhi che emettono lampi.
«OK! Anch'io ero completamente nudo e…» - un'altra pausa, poi riprendo - «…Non è vero niente, sciocchina.» - le accarezzo una guancia - «Non ci pensare, non immaginerei mai una scena scabrosa tra di noi, ti voglio troppo bene, ho fatto solo per scatenare una tua reazione: è stata proprio quella che mi aspettavo e me ne compiaccio.»
«È vero che ho fantasticato sul tuo risveglio, ma in una situazione casta e pura…» - e le racconto il mio sogno ad occhi aperti.
Lo sguardo inquisitore non si è ancora dileguato: forse ho esagerato un po'.
«Avresti preferito che fossi così? Disponibile, lasciva, magari sexy, lussuriosa: la tua Messalina?» - riprende offesa.
«Ti ripeto che scherzavo, riconosco di essere stato uno sciocco. Mi piaci così come sei non desidero altro in questo momento» - mi sottometto - «e ti chiedo scusa!» - chino il capo con atteggiamento ironico.
Non risponde e lo sguardo si è rivolto dall'altra parte: rincorre il paesaggio in movimento fuori del finestrino e mi volge le spalle, ancora irritata. I capelli raccolti nella solita folta coda che si diparte dalla parte alta della nuca, scoprono il collo liscio dove alcuni ciuffetti sbarazzini, sfuggiti alla cattura dell'elastico, ricamano volute estremamente attraenti alle quali non riesco a resistere. Al riparo dell’alto schienale della poltroncina di fronte, mi avvicino e, a labbra socchiuse, sfioro la base del collo alitando lievemente sui ciuffi castani che si agitano debolmente. Il collo si ritrae, eppure lei non fa una piega, apparentemente insensibile alla mia sollecitazione. Proseguo nella manovra di riconciliazione appoggiando le labbra nelle vicinanze del suo orecchio destro e percepisco una, seppur minima, reazione delle spalle che si stringono in preda ad un brivido. Mi distacco e tento di distrarre la sua attenzione dal paesaggio esterno, facendo in modo che si giri verso di me. Intravedo la faccia nel pallido riflesso del finestrino: "sta ridendo, sta sghignazzando alla faccia mia, mi sta prendendo in giro! Io mi sto impegnando per farmi perdonare un peccato molto veniale e lei si prende gioco di me!" - penso indispettito.
Abbandono, piuttosto irritato, le moine accomodandomi sulla poltroncina in posizione assolutamente neutra, lei se ne accorge e si volta di scatto ridendo di cuore nel vedermi scuro in faccia. Afferra violentemente le mie mani e mi restituisce, con gl'interessi, il bacio sul collo che poco prima le ho dato io.
«Anch'io stavo scherzando "sciocchino", come diresti tu.» - mi comunica divertita - «Ti conosco troppo bene per pensare a te come uno sporcaccione interessato solo alle donnine nude ed al sesso. È naturale che ti vengano in mente certe fantasie, ma tu hai la forza di ricacciarle da dove sono venute. Pensi che io sia fatta di ghiaccio? Come hai detto l'altro giorno sul mare: - "siamo grandi" - quindi possiamo coscientemente valutare cosa è meglio per noi, anche in quel senso lì!»
La mia bimba! È una donna ormai! Che ci faccio con lei? Me la merito? Spero di si!
«Grazie!» - mi esce naturale.
«A proposito, per dormire usi il pigiama o la camicia da notte?» - le chiedo riprendendo il gioco - «…e le mutandine: le porti si o no?» - ribadisco.
Mi colpisce con un ceffone che non riesco ad evitare, ma ride divertita senza sciogliere il dubbio che mi rode, mi getta le braccia al collo e mi bacia proprio nel momento in cui Fulvia e Feo si affacciano dal corridoio:
«Piccioncini!!!» - ci apostrofa Feo con una calata decisamente ironica - «Siamo arrivati, dobbiamo scendere, sarà il caso di rimandare le effusioni ad un momento più opportuno!»
Meno male che hanno provveduto loro ad avvisarci, chissà dove
saremmo scesi, senza il loro aiuto, presi com'eravamo dalle nostre faccende private! Mi alzo e faccio per forzare lei a rimanere seduta, come se non volessi farla scendere. È scivolata sul posto che in precedenza occupavo io e continuo a spingerla con le spalle contro lo schienale della poltroncina ridendo divertito, mentre lei si divincola nel tentativo di liberarsi; anche lei ride rumorosamente. La rilascio solamente nel momento in cui l'autobus si ferma e mi avvio di gran carriera lungo il corridoio centrale verso la porta anteriore, quella adibita alla discesa, costringendo Martina ad una rincorsa per non rischiare di rimanere a bordo.
La nostra coppia d’amici è già a terra, assiste divertita alla scena di Martina che scende trafelata i due scalini finendomi addosso con tutto il peso ed io che l'abbraccio stringendola fortissimamente come per scrivere la definitiva parola "fine" sull'argomento. Dai finestrini del torpedone i passeggeri assumono espressioni stranite non riuscendo ad intuire la dinamica dell'accaduto. Qualcuno sorride.

Il Villaggio Scolastico è situato alla periferia di una cittadina vicina al nostro paese ed occupa un'accogliente area per lo più adibita a verde, con altissimi pini, giardini e vialetti meta non solo di studenti ma anche di cittadini desiderosi di un po' di fresco e di tranquillità. Il campo sportivo, circondato dalla pista d'atletica leggera, quello di pallacanestro ed il palazzetto dello sport conferiscono un senso di completezza a tutta la zona. Noi stiamo passeggiando per le stradine del villaggio, fiancheggiate da basse siepi d’arbusti sempreverdi, in direzione del Liceo Classico dove sia Martina che Fulvia hanno deciso d'iscriversi. L'istituto è sicuramente l'edificio più vecchio del villaggio e sembra un po' la madre di tutte le altre costruzioni, alcune delle quali recentemente inaugurate o ristrutturate. Oltre il portone d'ingresso, l'androne deserto incute un certo timore e l'aria che si respira ha un sapore di severità ed austerità tipicamente scolastiche. I nostri passi risuonano nel silenzio rotto soltanto dal ticchettio di una macchina per scrivere proveniente dall'unica stanza con la porta aperta. Sull’uscio una targa in ottone riporta la scritta Segreteria in bassorilievo ed intuiamo di essere arrivati nel posto giusto. All'interno, due signore ben vestite ed accuratamente truccate stanno svolgendo le rispettive mansioni: una, seduta, è l'esecutrice dell'assolo per macchina da scrivere a cui abbiamo assistito dal corridoio mentre l'altra è in piedi di fronte ad un armadio aperto pieno di faldoni di cartone contenenti un numero infinito di fogli di carta, probabilmente profili scolastici, risultati di scrutini ed altri documenti accumulati nel corso degli anni. Un bancone metallico con il ripiano superiore in legno lucido, separa la zona d'ingresso dallo spazio riservato alle due segretarie.
«Buongiorno.» - salutiamo quasi in coro, come Boy Scout ben addestrati all'adunata mattutina.
La segretaria in piedi contraccambia cortesemente il saluto e ci chiede di che cosa abbiamo bisogno. Fulvia prende l'iniziativa: chiede i moduli e la documentazione necessaria per effettuare l'iscrizione.
«Per tutti e quattro?» - chiede la gentile signora.
«No! Solo per due.» - risponde prontamente Fulvia alla quale la segretaria consegna due sets di moduli da riempire, i bollettini postali per pagare le tasse scolastiche e due fogli ciclostile sui quali è indicata la documentazione necessaria per finalizzare l'iscrizione; i moduli devono essere firmati dai genitori quindi sarà necessario sorbirci un altro viaggetto in pullman nei prossimi giorni.
Dopo aver ringraziato usciamo per recarci all'Istituto Tecnico Industriale dove Feo ha in mente d'iscriversi; è il complesso più grande di tutto il villaggio, con i caratteristici estesissimi capannoni, dai finestroni a vetrata, adibiti ad officina, dove gli studenti mettono in pratica le tecniche acquisite con lo studio della teoria. Prima di affrontare il portone d'ingresso, attraversiamo un piccolo giardino abbastanza curato. Oltrepassata la soglia, il corridoio dalle pareti recentemente pitturate di bianco, è meno austero del precedente, ma molto più freddo e distaccato. Filtra luce dall'unica porta aperta che dà sul corridoio e che supponiamo sia l'adito alla segreteria. Feo ed io ci affacciamo timidi, mentre le ragazze sostano nel corridoio, ed un'anziana signora, con gli occhiali dalla montatura ornata di finti brillantini, alza la testa distogliendo lo sguardo dalle pagine del giornale aperto e ci guarda dal di sopra delle lenti.
«Vorrei…» - Feo non fa in tempo a completare la frase, che la signora si alza con aria annoiata e si dirige verso un angolo del bancone dove sono accatastate due pile di moduli. Ne abbranca un paio e li appoggia sul ripiano del bancone stesso senza proferire parola.
«…E la documentazione da allegare?» - chiede cortesemente Feo.
«È tutto spiegato lì sopra, e ci sono anche le cedole per pagare le tasse.» - risponde lei con fare sufficiente.
«Grazie… molto gentile!» - ci congediamo con atteggiamento critico.
È giunto il mio turno, ho deciso di frequentare il Liceo Scientifico, per l'appunto intitolato ad Enrico Fermi, e lo stabile che ospita la scuola si trova proprio vicino al palazzetto dello sport. Una grande scala precede il portone attraverso cui accediamo ad un’ampia sala sulla quale si affacciano numerose porte chiuse e, sulla sinistra, un largo corridoio. Sulla destra del salone la postazione delle custodi dalla quale si distacca una di loro che, piuttosto grassottella, riempie abbondantemente la classica sopraveste blu; ci si fa incontro, con andatura altalenante e ci accompagna verso il corridoio dove si apre la stanza adibita a segreteria. La bionda segretaria, piuttosto giovane, ci accoglie freddamente ma con aria professionale e, alla mia richiesta, mi consegna il modulo, i bollettini per le tasse, con ampie spiegazioni sulla maniera di compilarli correttamente, e la lista dei documenti necessari all'iscrizione. 
«Missione compiuta!» - afferma il mio amico scendendo lo scalone esterno del Liceo - «Abbiamo da pagare tasse in abbondanza: saranno felici i genitori!» - continua ironicamente.
Facciamo una passeggiata per il paese, Martina mi tiene per mano ed altrettanto fa Fulvia con Feo, si soffermano di fronte alle vetrine dei negozi, prevalentemente d'abbigliamento, dove i loro commenti mettono in risalto questo o quel vestitino, costume o altri accessori che, sinceramente, non attirano la mia attenzione né quella del mio fido compagno. Andando a zonzo, la mattinata passa in fretta ed abbiamo fatto l'ora di raggiungere la stazione degli autobus per il ritorno verso il nostro paese.
...continua

venerdì 18 aprile 2014

quinto, 3° di 3

Quinto capitolo, terza e ultima parte

Il pomeriggio trascorre sereno, pochi rimasugli dell'avvilimento della mattina si dissolvono presto sul volto di Martina. Facciamo il bagno, giochiamo a palla tutti insieme, imbastiamo combattimenti cavallo e cavaliere con le ragazze sulle spalle, seguiti da inevitabili cadute in acqua con tanto di spruzzi e schiuma tutt'intorno. Una nuotata al largo, fino alla diga di massi, dove scoviamo uno scoglio pianeggiante, più appartato degli altri, al riparo da sguardi indiscreti: ci concediamo alcuni minuti di intimità durante i quali non ci risparmiamo calorose dimostrazioni d'affetto, ad occhi socchiusi, al caldo sole pomeridiano. Un tuffo ed
una nuotata raffreddano gli adolescenziali ardori prima di ricongiungerci con lo stuolo di corpi amici distesi sulla sabbia. Usciamo grondanti dall'acqua, mano nella mano e subito li imitiamo. Il tempo di asciugare e, prima delle sei, con il sole ancora alto nel cielo, sono costretto ad abbandonare la compagnia, consigliando a Martina, che vorrebbe seguirmi, di rimanere ancora un po' con gli altri, visto che, in ogni caso, non potremo stare insieme dovendo andare a ritirare il tanto atteso motorino. Acconsente.
Raggiungo velocemente la bicicletta appoggiata al muro dell'Ippocampo, sistemo l'asciugamano sulla sella di cuoio nero e sfreccio impaziente verso casa dove trovo mio padre che mi attende sulla soglia del cancello.
«Alla buon'ora!» - mi rimprovera - «Il tuo motorino sarà già stato venduto a qualcun altro.»
Ripongo in tutta fretta la bici in garage, passo l'asciugamano dalla sella al sedile della macchina e salgo, col costume ancora umido. La vecchia fidata Opel Kadett verdolina del sessantatré ci porterà dal concessionario del paese vicino e, nonostante abbia dovuto già sottostare ai miei primi stentati approcci con la guida, sull’aia di parenti che abitano in campagna, se la cava ancora bene. Partiamo. Una rapida sosta all'ufficio dell'Assicurazione per ritirare il tagliando e la Polizza poi, nel breve tragitto che ci separa dal Concessionario, mio padre indaga garbatamente sul mio modo di impiegare il tempo libero durante il giorno, in spiaggia, o la sera. Egli lavora tutto il giorno e, specialmente durante l'estate, in cui è mia consuetudine uscire anche dopo cena, ci vediamo per brevissimi momenti, durante i quali il tempo per parlare è piuttosto scarso. La conversazione cade inevitabilmente sul mio prossimo impiego.
«Nessuno ti obbliga a lavorare. Hai studiato fino a pochi giorni fa, oltretutto con lo stress degli esami. Quella è la tua attività, se vuoi riposarti, è un tuo diritto.» - mi suggerisce.
«Nessun problema!» - rispondo sereno - «Ho scelto io di provare la difficoltà del mondo del lavoro. Voglio vedere di che cosa sono capace, senza contare che, come ben sai, mi fa piacere essere abbastanza indipendente dal punto di vista economico. Probabilmente sarà dura, ma mi farò una bella esperienza. Spero solo di avere un po' di tempo libero nel pomeriggio o la sera, sai, i ragazzi, la compagnia… un po' di svago…»
«…Martina…» - sornione
«Che centra Martina, ora?»
«Niente, facevo così per dire. È molto carina, ha la tua età, è una brava ragazza, vi vedete spesso…»
«Beh! Se bastasse solo questo ci sarebbero anche Isa, Fulvia, Tania e le altre. Dovrei fare la corte a tutte?»
Fortunatamente, nel frattempo, siamo giunti dal Concessionario dove il mio due ruote è in mostra sul piccolo piazzale antistante la vetrina. Lascio il discorso sospeso a metà e scendo precipitosamente dall'auto catapultandomi nei pressi dell'oggetto dei miei desideri: rosso fiammante con piccole rifiniture gialle sul serbatoio sfaccettato, i parafanghi, i cerchioni delle ruote, il manubrio e la piattaforma appoggia-piedi cromati, gli ammortizzatori ed i fanali neri ed una banderuola, anch'essa rossa, sul culmine del parafango anteriore. Ed è mio. Ci raggiunge Renato, il titolare nonché meccanico della concessionaria, abbigliato con una tuta che originariamente doveva essere blu, ma che ha assunto una colorazione indistinta tendente al piuttosto sporco:
«Guarda che non è il tuo!» - mi comunica perentoriamente col vocione da baritono pulendosi le mani bisunte di grasso con uno straccio altrettanto bisunto dall'indefinibile colore - «Il tuo non è ancora arrivato, ma non ti preoccupare, oramai è questione di pochi giorni.»
Deluso mi rivolgo verso la macchina dove mio padre sta scendendo e non mi sfugge un suo rassicurante sberleffo.
«Comunque, se intanto vuoi fare un giro di prova, te lo concedo.» - continua Renato.
«No non mi va!» - sto al gioco - «Se è questione di giorni, oramai aspetto di esserne il legittimo proprietario. Come posso accontentarmi di un giretto!» - e mi avvio verso l'auto.
Renato comprende che ho mangiato la foglia e mi affida le chiavi sorridendo compiaciuto:
«Toh! È tutto per te.» - conclude con le istruzioni e le raccomandazioni di rito - «Miscela al cinque per cento. Per i primi mille chilometri, non pretendere prestazioni elevate e, dopo, fai in modo di raggiungere gradatamente il massimo della velocità. Ricordati: sostituire il carburatore con uno maggiorato oppure applicare lo scarico ad espansione aumenta il rendimento, ma non è consentito oltre a risultare dannoso per il motore. Se proprio non resisti alla tentazione di elaborarlo, alla fine del periodo di rodaggio, vieni da me che c'inventiamo qualcosa di lecito. Il libretto di circolazione è nell'astuccio per gli utensili, sotto la sella, entro un mese ricordati di pagare la tassa di circolazione, agli uffici dell'A.C.I., esponi il tagliando dell'Assicurazione e, soprattutto, vai piano!»
Ringrazio Renato. Non sto più nella pelle.
Sbrighiamo le ultime formalità, il babbo provvede al saldo dopodiché, una pedalata, il rombo del motore e, lui avanti con l'auto ed io dietro novello centauro, riprendiamo la via di casa.
Davanti al giardino, l'auto si appresta ad affrontare il cancello, rimasto aperto, per entrare nel vialino piastrellato e, di conseguenza, in garage ma io mi soffermo soltanto e grido, in direzione di mio padre:
«Vado a fare un giretto!» - e tiro di lungo mentre in lontananza sento un: «Vai piano!» - dalla voce di mia madre che ci attendeva sulla soglia. Dalla frenesia non l'ho neppure notata.
Passo di fronte al giardino di Martina dove sua madre accudisce i fiori, ma noto che non è ancora rientrata dal mare quindi proseguo in direzione di casa di Fulvia percorrendo a ritroso l'usuale percorso. Svolto due volte a sinistra e, puntuali, vedo le due signorine che mi vengono incontro sulle rispettive biciclette modello Graziella, molto in voga ma soprattutto molto pratiche per le dimensioni ridotte. Feo, alla sinistra di Fulvia, le accompagna premuroso. Procedono lentamente e parlottano tra loro, mentre lui si accorge di me ma tace nel notare che inverto la marcia. "Se faccio il giro dell'isolato li prendo alle spalle, prima che giungano a casa di Fulvia" - calcolo velocemente. Ritorno sui miei passi, transito di nuovo di fronte a casa e mi accingo a svoltare l'angolo della via dove si trovano loro. Li vedo. Procedo a mia volta lentamente, cercando di tenere il motore al minimo regime per fare meno rumore possibile e m'infilo in mezzo alle due ignare cicliste pressoché alla loro stessa velocità. Suono il cicalino.
Beeep!
L'improvvisata provoca un sussulto in entrambe le ragazze che sbandano con le bici rischiando seriamente la caduta rovinosa. Feo, logicamente, mi ha tenuto il gioco e non si muove di un centimetro. In breve, nel riaversi, Fulvia e Martina percuotono violentemente le mie spalle a pugni chiusi non risparmiando meritati improperi al mio indirizzo; mentre ci fermiamo mi schermo come posso dalla piacevole scarica di pugni e, dagli insulti, si passa gradatamente ai complimenti per il mio nuovissimo fiammante cavallo d'acciaio. Feo scaraventa la bici a terra, mi viene vicino e si complimenta con clamorose pacche sulle spalle:
«Beato te! Io dovrò attendere ancora qualche giorno» - sospira con una punta d'invidia.
Gli apprezzamenti si sprecano e, senza fretta, ci avviciniamo al cancello dove Fulvia abbandona la compagnia non prima di confermare il ritrovo per le nove al solito posto in piazza. L'amico ci saluta a sua volta e ritorna da dove siamo venuti, in direzione della propria dimora, mentre due svolte a destra separano me e Martina dalla strada di casa nostra. Adatto la velocità del motorino a quella della bici di Martina: procediamo insieme e lei mi racconta quel poco che è successo sulla spiaggia durante la mia oretta d'assenza. Il motore squittisce, mentre le faccio un paio di giri intorno:
«Vuoi fermarti? Mi fai girare la testa!» - mi chiede inebriata.
Giungiamo al cancello, sua madre è già rientrata in casa, ma si affaccia dalla finestra probabilmente attratta dal rumore, non ancora familiare, dello scarico della mia motoretta. Guarda giù con un accenno di sospetto, poi mi riconosce e saluta con la mano. Con Martina, ci guardiamo bene dal salutarci come vorremmo, limitandoci ad un formalissimo: «ciao a dopo!»
«Passo io da te!» - è l'ultima cosa che odo provenire dalla rampa delle scale.
«Va bene ciao!» - e via col rombante mezzo.

Inforco il cancello di casa, quando il mio biondo nipotino mi corre incontro di corsa finendo a sgambettare tra le ruote del motorino e costringendomi a fare particolare attenzione per non investirlo; si avvicina, lo prendo in braccio di peso e lo sistemo, in piedi, sulla pedana centrale facendogli provare l'ebbrezza per i due metri che ci separano dal marciapiede. Ride a squarciagola soddisfatto ed i piccoli denti bianchi incorniciano le rosee mucose della bocca e la lingua. Finalmente concedo a mia madre la soddisfazione che merita, mi scuso per non averlo fatto prima e lei, comprensiva come sempre, si congratula con me per la felice scelta dispensando apprezzamenti sul novello destriero a motore. Infila una mano nella tasca del grembiule, ne estrae una medaglietta con l'effigie della vergine col bambino e la assicura, con un fiocchino rosso, sotto la sella in posizione pressoché invisibile. Anche mia sorella non risparmia complimenti.
Parcheggio il motorino in garage, tolgo le chiavi, lo copro premurosamente con un telo di stoffa fine, probabilmente un vecchio lenzuolo smesso, che lo ripari dalla polvere e, dopo aver chiuso a doppia mandata la porta, mi avvio per le scale.

Alle nove, puntuale, Martina suona il campanello e mi verrebbe voglia di inscenare una discesa da film, ma non ne sono capace, oltretutto è grande la smania di rivederla e finisco per catapultarmi per le scale scendendole a tre per volta.
Un fulgido sorriso accoglie il mio arrivo in giardino. Martina è abbigliata semplicemente, con maglietta, jeans e scarpe da ginnastica. È splendida, ai miei occhi! Percorriamo di corsa il vialetto del giardino, varchiamo il cancello e, sempre correndo, svoltiamo la prima cantonata: è lì che si ferma di scatto, io, per inerzia, percorro ancora un paio di metri, poi mi blocco e ritorno sui miei passi, lei mi prende la testa con entrambe le mani e mi affibbia un sonoro clamoroso bacio.
«Non resistevo più!» - mi spiega - «Mi consolo con Venerdì, ma non è la stessa cosa» - ed estrae lo scimmiotto dalla borsetta.

Proseguiamo verso il luogo d'incontro con gli amici e la serata si svolge all'insegna della normalità.

domenica 19 gennaio 2014

quinto, 2° di 3




In disparte, mentre gironzoliamo, notiamo un piccolissimo banco, in contrasto con tutti gli altri del mercato, su cui sono esposti numerosi pupazzetti di svariate dimensioni, vagamente rassomiglianti ad animali, realizzati con fili di lana colorata. Dietro al banco, un uomo con una lunghissima e folta barba brizzolata, capelli altrettanto lunghi ed un cappellaccio di paglia in testa, sta realizzando proprio uno di quei fantocci che ha tutta l'aria di essere una scimmietta bianca e nera dall'aspetto simpatico. Un altro molto simile è già in esposizione e colpisce la mia fantasia, infilo la mano in tasca, chiedo il prezzo e lo compro: chissà se Martina apprezzerà! Feo mi conforta confermando che è stata una buona idea.
La nostra passeggiata tra la gente prosegue indisturbata. In lontananza, tra la folla, scorgo una coda di capelli scuri a me molto familiare ed affretto sensibilmente il passo, compiendo uno slalom tra chi procede molto più lentamente di me. Feo è rimasto indietro e sta facendo capannello con un gruppo d’amici un po' più grandicelli di noi che sembrano impartire lezioni su come abbordare le giovani turiste compiacenti. Giungo abbastanza vicino da notare che Martina non è da sola: la mamma la accompagna in questa passeggiata tra le bancarelle ed io sarò costretto a limitarmi ad un comportamento abbastanza distaccato, per non destare sospetti nell'accorta genitrice. La signora è di corporatura esile, ma un po' più bassa di Martina, forse per questo non l'ho notata subito, bruna di capelli come lei e piuttosto piacente: si difende ancora bene, nonostante l'età. Mi sposto verso destra, sul marciapiede e, di passo svelto, le supero di quel tanto che mi basta per ritornare sui miei passi, senza farmi notare, ed affrontarle frontalmente. Mi mischio tra la folla: con aria indifferente sbircio distrattamente verso gli articoli esposti sui banchi del mercato e, con la coda dell'occhio, controllo il percorso nella marcia d'avvicinamento all'obiettivo. Una volta vicino, evito magistralmente uno scontro quasi frontale con la signora che, con uno scossone del busto, si dimostra sorpresa da quell'inatteso rendez vous rischiando di rovesciare per terra il contenuto della borsa della spesa quasi piena. Saluto, mi scuso per l'attimo di distrazione e mi concentro su Martina alla quale chiedo se ha visto nessuno degli altri. Entrambe sorridono per questa mia stupida sortita. "Ho fatto veramente la figura del babbeo" - rifletto - "speriamo che non abbiano assistito alla mia insulsa manovra d'accerchiamento a dir poco disonorevole". Meno male che Martina, sollecita come sempre, prende la palla al balzo:
«Mamma, posso?» - chiede candidamente.
«Va bene! Ci vediamo a casa a pranzo.» - le concede lei.
Ci allontaniamo in fretta in direzione del punto in cui ho lasciato Feo pochi minuti prima e lo scorgo che allunga il collo oltre le teste dei passanti, probabilmente alla mia ricerca. Nel frattempo Franco, Luca ed Isa si sono uniti a lui e, quando ci ricongiungiamo non chiede spiegazioni per la mia fuga improvvisa, forse appagato dalla presenza di Martina al mio fianco.
Ci tiriamo fuori dalla zona del mercato ed incrociamo il mio futuro datore di lavoro che, non molto simpaticamente e con espressione beffarda, mi ricorda il mio impegno in programma per la settimana ventura. Nel dirigerci verso il mare giungiamo sul piazzale antistante l'Ippocampo e ci avviciniamo al massiccio muricciolo di cemento che separa il parcheggio dalla spiaggia. Aiuto Martina a salire per sedersi sul muretto ed io, per il momento, mi appoggio con le braccia conserte vicinissimo a lei, alla sua destra, rivolto verso il mare. Frugo in tasca e, appoggiandomi sul gomito sinistro, le offro il mio piccolo dono. Con aria sorpresa mi abbraccia felice, ma si adombra in fretta accarezzando dolcemente quella specie di gomitolo di lana. Poi, con la mano sinistra, passa ad accarezzarmi i capelli crespi e, con aria avvilita, comincia a parlare:
«Quel cafone che abbiamo incontrato in piazza è il titolare della pensione dove andrai a lavorare tra breve?» - chiede contrariata.
«Si! Ma non è un cafone, non essere dura con lui!»
«Come può essermi simpatico? Tra poco più di una settimana passerai più tempo con lui che con me!» - replica mesta.
«Non essere dispiaciuta, bimba! Fa parte del gioco!» - provo a farle capire - «Sai che l'inverno scorso ho già iniziato a far pratica, lavorando alcuni sabati o domeniche, proprio per essere pronto al sopraggiungere della stagione estiva.»
«Ma quest'inverno era diverso, tra noi.» - quasi piagnucola - «Siamo nella stagione più bella e dovremo trascorrerla separati… e a te non importa!»
«Non è vero! Sei ingiusta se pensi veramente che io non soffra. Il fatto è che ho preso l'impegno e devo mantenerlo, senza considerare che guadagnerò un po' di soldini che faranno senz'altro comodo. Un giro in più al Luna Park, un cinema in più, la benzina per il motorino nuovo, un regalino a te! Dovresti conoscere le mie idee sul fatto di rendermi economicamente autosufficiente.»
«Non m'interessano i regali! Il regalo più grande è stare con te!» - afferma perentoriamente.
Approfitto di un breve istante di pausa per cambiare posizione. Mi scosto dal muretto e mi propongo di fronte a lei protendendo le braccia che vanno a cingere i suoi leggeri pantaloni di cotone beige; mi accosto alle sue ginocchia che, divaricandosi, mi accolgono affettuosamente tra loro finché non appoggio la fibbia della cintura sulla cruda spalletta. Le sue braccia avvinghiate al collo e le mani intrecciate dietro la mia nuca completano un angolino virtuale nel quale ci siamo appartati isolandoci da ciò che ci circonda. L’unico testimone è il pupazzetto che ancora stringe in una mano. I nostri volti si fronteggiano, il mio è più in basso del suo, questa volta, ed annego nei suoi occhi languidi che mi riempiono di tenerezza: l'affetto che ci lega sta assumendo proporzioni smisurate. Le sue labbra sfiorano le mie.
«Non sto per partire per il servizio militare sulle Alpi del Trentino Alto Adige o in chissà quale sperduta caserma della Sardegna più selvatica. Andrò a lavorare a cinquanta metri da qui.» - e le indico il vicinissimo albergo - «Guarda, quando verrai alla spiaggia, passerai di fronte all'ingresso principale, ti basterà sbirciare tra le tende delle grandi finestre e mi vedrai intento nell'adempimento delle mie mansioni. Se ti andrà, potrai bussare ai vetri ed io ti saluterò.»
Ancora un istante di silenzio, nel nostro angolino:
«…poi non è vero che non staremo insieme.» - riprendo a parlare - «I primi giorni, probabilmente, sarà dura, dovrò impadronirmi dei ritmi di lavoro, conquistarmi qualche momento di libertà, ma in breve sono sicuro che riusciremo ad organizzarci per trascorrere un sacco di tempo insieme. Non ti lascerò da sola in questa spiaggia affollata di bellimbusti forestieri dal fisico prestante, col rischio che qualcuno più attraente di me conquisti la tua fantasia, mentre io tergo il sudore dalla mia fronte. Chissà in quanti verranno a farti la corte, in mia assenza! Carina come sei avrai solo l'imbarazzo della scelta!»
«Scemo!» - e mi sferra un leggero schiaffo, più simile ad una carezza, a dire la verità.
Me lo merito!
«Io sto con te, desidero solo te, la notte sogno di te. Al mio risveglio, sei tu il primo pensiero: il tuo viso, i tuoi capelli, le tue folte sopracciglia, i tuoi grandi occhi, il tuo naso, la tua bocca. Ogni mattina eseguo a mente il tuo ritratto e mi pento di non aver preso prima l'iniziativa. Le tue parole, i tuoi gesti, i tuoi silenzi, le tue stupidaggini, le tue smanie, ripercorro minuto per minuto il tempo che trascorriamo insieme ed ogni volta scopro nuove adorabili sfaccettature. Tu piuttosto!» - continua in atteggiamento quasi di rimprovero - «Avrai tutte le ragazzine dell'albergo ai tuoi piedi. Calzoni neri, scarpe lucidate di fresco, camicia candida sempre perfettamente stirata, farfallino nero al colletto: un figurino da sfilata, pronto a soddisfare i capricci di quelle smorfiose di turiste dall'atteggiamento compiacente…»
«Vediamo: il lunedì ne voglio una bassa, bionda con gli occhi azzurri; il martedì sempre bionda, ma questa volta alta e con gli occhi scuri; il mercoledì sarò di turno al bar, quindi prenderò quello che capita; il giovedì…» - rimugino con gli occhi al cielo come fossi intento nella programmazione del mio futuro di cameriere rubacuori.
Abbasso di nuovo lo sguardo e mi accorgo che i suoi occhi sono ancora tristi ma le sue labbra si stanno inarcando verso l'alto, pronte a sfoggiare un accenno di sorriso.
«Ti riempio di botte fino a coprirti tutto il corpo di lividi, se fai il cascamorto con le svenevoli villeggianti.» - minaccia appoggiando i pugni chiusi, ed il fantoccino, alla parte superiore del mio petto - «Poi mi faccio aiutare da Feo, ti leghiamo come un salame, prendiamo la barca di Lino, ti portiamo alla secca del fanale, ti lasciamo viveri ed acqua per tutta la stagione e ritorniamo a prenderti verso la metà di Settembre, in tempo per riprendere la scuola!» - dichiara con aria ingannevolmente imbronciata.
La stringo in un abbraccio affettuoso e lei ricambia, le nostre guance sono a contatto e percepisco lo scorrere di un lacrimone caldo. Mi discosto:
«Sciocchina!» - sta sorridendo, nonostante gli occhi siano umidi - «Ricomponiti, dai! Dipende da noi. Se non desideriamo avventure, non avremo avventure. Siamo grandi.»
È più serena, adesso, mi toglie le braccia dal collo, si terge gli occhi col dorso della mano e tira su arricciando simpaticamente il naso.
«Vogliamo battezzare il nostro nuovo amichetto?» - mi chiede finalmente un po' più distesa, mentre tira di nuovo su col naso - «Oggi è Venerdì e lo chiameremo Venerdì, come fece Robinson Crusoè con l'inatteso ospite indigeno, ti va?»
«Aggiudicato!» - confermo con aria marziale - «È con sommo gaudio che, dall'alto della carica di Gran Cerimoniere a me conferita dalla Principessa Martina, la più dolce pulzella nonché Principessa del reame di Spiaggialandia, io ti battezzo Venerdì, in rimembranza del dì della tua adozione.» - e m'invento cerimoniosi gesti che eseguo solennemente sulla testa di quella specie di batuffolo ancora prigioniero delle snelle dita di Martina.
Ride di gusto, finalmente, rendendomi felice per aver alleviato, almeno in parte, il suo cruccio.
Gli altri si sono generosamente allontanati da tempo, ritenendo di non interferire nella nostra struggente conversazione e sono sicuro che Feo è alla base di questo accomodante atteggiamento del gruppo. Come al solito non è stato necessario chiedere. Con Feo ci capiamo al volo. Grazie Feo.
La compagnia si ricostituisce e, visto che le campane hanno scandito da tempo i rintocchi di mezzogiorno, c'incamminiamo verso casa. Imbocchiamo il lungomare e ci dirigiamo verso il campo sportivo, teatro di campionati di calcio del periodo invernale e di qualche torneo del periodo estivo che vedono protagonisti molti ragazzi del paese di tutte le età.
«Questa sera vado con i miei a ritirare il motorino. Alle sette e mezzo ritengo che sarò di ritorno e passerò sotto casa tua.» - le comunico cammin facendo.

«Va bene!» - risponde lei dolcissima ma con gli occhi ancora offuscati da un velo di mestizia mentre ricopre di carezze il fortunato Venerdì. Probabilmente sta ancora rimuginando sul dialogo di poco fa sulla spalletta del parcheggio dell'Ippocampo e sul mio prossimo impiego. La saluto al cancello di casa sua con la promessa di rivederci prestissimo nel pomeriggio per andare al mare insieme.

venerdì 4 ottobre 2013

quinto 1° di 3

quinto 1/3
Mi sveglio di soprassalto al trillo insistente del campanello, simile al cicalino del pulsante di un programma televisivo a quiz. Mia madre, nel corridoio, risponde al citofono:
«Chi è?»
Sento che apre il portone e la porta che dà sulle scale. Passano pochi istanti e, dopo un frettoloso “buongiorno” rivolto a mia madre, il ciclone Feo irrompe nella mia stanza ancora avviluppata nella penombra dall’avvolgibile quasi completamente chiuso.
Nella scarsa luce diffusa dai piccoli fori delle stecche superiori della tapparella, intravedo a malapena la faccia di Feo stravolta e, allo stesso tempo, elettrizzata. Un’occhiata che mia madre non sia a portata uditiva, poi Feo accosta la porta, si siede sul bordo del letto e m’investe con un fiume di parole a cui, in preda al torpore del risveglio, stento a dare un significato.
«Fulvia… casa… strada… buio… mezzanotte… stupendo… bacio…».
Piove a catinelle, i vocaboli si infiltrano nel mio cervello in ordine assolutamente casuale inondandolo copiosamente: non riesco a distinguere se Feo le sta sparando alla rinfusa o sono io che non riesco a dar loro un ordine logico, ancora abbracciato da un Morfeo che non accenna a mollare la presa.
«Ma che ore sono?» – farfuglio assonnato stropicciandomi gli occhi.
«Le nove e mezzo, ma che t’importa» – mi scuote – «Svegliati! Ascoltami! Ho bisogno di sfogarmi!»
«Le nove e mezzo? Tu sei matto! Ritorna tra un paio d’ore» – gli ordino girandomi verso il muro e coprendomi il busto nudo col leggero lenzuolo.
Con un balzo raggiunge la finestra, solleva la tapparella ed il sole inonda la stanza pugnalandomi gli occhi gonfi per la notte appena trascorsa. Lo mando sonoramente a quel paese e mi copro gli occhi col cuscino, ma lui me lo strappa dalla faccia: non c’è modo di dormire. Mi tiro a sedere sul letto, mi stropiccio nuovamente gli occhi e mi appoggio sulle braccia distese all’indietro:
«Allora? Cosa c’è di tanto urgente da farti svegliare alle prime luci dell’alba e, soprattutto, da svegliare me così presto?» – chiedo seccato – «Non potevi aspettare che ci vedessimo al mare, come ogni giorno?»
«Fulvia!» – dice eccitato con gli occhi che brillano di contentezza – «Ieri sera l’ho accompagnata al portone di casa. In linea d’aria è proprio qui dietro, sulla strada parallela a questa.»
«Lo so dove abita Fulvia! E allora?» – insisto artificiosamente irritato – «Mi hai svegliato per comunicarmi l’indirizzo di Fulvia? Grazie tante!»
A poco a poco sto riacquistando le facoltà intellettive temporaneamente perdute durante il sonno notturno e prende corpo in me la scena di cui Feo mi vuole rendere partecipe.
«Iersera, quando ci siamo lasciati, laggiù all’incrocio, l’ho accompagnata a casa.»
«Lo so: vi ho visti. Vi abbiamo visti. Tu eri così impegnato che non ci hai augurato neanche la buonanotte. Martina ed io vi abbiamo osservato per un breve istante mentre vi allontanavate da noi. Fate una bella coppia.» – rispondo con aria canzonatoria.
«Non fare il cretino, altrimenti non ti dico più niente!» – mi apostrofa lui.
«No, no, vai avanti, ormai mi hai svegliato, tanto vale che mi racconti tutto.»
«Per la strada abbiamo continuato a parlare del più e del meno, ma io non resistevo più,» – continua su di giri – «dovevo fare qualcosa, agire in qualche modo, capire se anche lei…» – breve pausa – «Al cancello… La luce del lampione era parzialmente oscurata dalla folta chioma dell’acacia ed ho rotto gl’indugi. Finalmente le ho sussurrato quello che provo per lei. Avevo il cuore che batteva a mille. Ero elettrizzato come non mi era mai successo. Mi ha risposto che anch’io le piaccio!»
«Tutto qui?» – chiedo ironico – «E tu hai turbato il mio sonno nel cuore della notte per questo? Sei il solito rompiscatole!» – e mi ributto sul letto, coprendomi col lenzuolo fin sopra la testa, come se volessi riprendere il sonno interrotto. Facendo capolino dall’orlo lenzuolo noto che mi scruta perplesso e non si capacità se credere alla mia insolita reazione. Come una furia, volo il lenzuolo, con i soli slip addosso mi avvento su di lui e ci avvinghiamo per terra in una lotta dura ma dalle mosse studiate e del tutto innocue. Lo stendo schiena a terra e gli sono a cavalcioni quasi sul petto immobilizzandolo.
«Cosa ti dicevo, al cinema? Non ne ho mai dubitato!» – e, di destro, gli sferro un buffetto alla mandibola.
Ci tiriamo su, sediamo sul letto sfatto e Feo riprende la rosea cronaca soffermandosi su pochi particolari, dopodiché sospira appagato.
«Il quarto d’ora più bello della mia vita!» afferma con aria trasognata!
«Va tutto bene, Rodolfo Valentino» – lo rassicuro – «e ora cosa si fa? Al mare è troppo presto, ci troviamo solo Angiolino che ripara le reti. Tutti i nostri coetanei a quest’ora dormono. Ma come hai fatto a svegliarti così presto?»
«Ero troppo eccitato, prima delle sette ero già in piedi e, nel giro di mezzora, ero in cucina, non riuscivo più a dormire.» – risponde – «Ho pure spaventato mia madre che mi ha fatto il lavaggio del cervello credendo che mi sentissi poco bene. Quando ha visto che ho divorato la colazione si è convinta che non avevo niente e mi ha lasciato perdere. Mi sono vestito velocemente e sono corso qui in preda alla furia di raccontarti tutto. Ora so cosa ti succede, quando fai la faccia da pesce lesso con Martina.»
«Io che faccio gli occhi da pesce lesso: impossibile!» – ma poi il pensiero vola verso la mia dolcissima bambina e mi rendo conto che ciò che Feo afferma è assolutamente vero. Ho preso una cotta che ha dell’incredibile. È la prima volta che mi succede ed è assolutamente al di sopra delle più rosee aspettative. Sono pronto a fare la faccia da pesce lesso, per lei.
«Hai ragione, sono proprio cotto a puntino.» – sentenzio – «E pensare che, fino a meno di due settimane fa, non ci pensavo proprio ad avere una storia con lei.»
Mi ributto sul letto e, come un idiota, rimango per alcuni minuti a fissare il vuoto con la mente rivolta a colei che occupa costantemente i miei pensieri. Feo non è da meno. Ad un tratto, si scuote:
«Dai! Preparati che usciamo, prendiamo le biciclette, facciamo una pedalata fino al ponte Romanico e vedrai che facciamo l’ora di trovarci con gli altri.»
Una rapida passata per il bagno, colazione abbondante, un saluto disperso in cucina:
«Ci vediamo a pranzo!» – e giù per le scale.
La pedalata fino al ponte Romanico, detto anche “ponte gobbo” per la strana deviazione che impone alla carreggiata, si rivela molto rilassante e, al ritorno, decidiamo di fare una capatina al mercato che, con cadenza settimanale, anima il versante Sud della piazza.
I banchi degli ortolani ostentano orgogliosamente ortaggi e frutta delle campagne locali che gli ambulanti continuano ad aspergere con spruzzi d’acqua fresca, per mettere ancora di più in risalto la lucentezza delle scorze variopinte.
In un angolo, una contadina, abbigliata con il classico grembiule sull’ampia gonna lunga e nera e l’immancabile pezzuola in testa annodata sulla nuca, sfoggia quattro grandi sporte di paglia intrecciata contenenti i prodotti del proprio orticello: peperoni dalla vivace colorazione gialla, rossa o verde, enormi e violacee melanzane dalla forma rotonda o allungata, fagiolini verdi, striate zucchine, insalata, pomodori ed altri ortaggi di stagione appena raccolti.
Il pescivendolo, il Pozzuolano, declama, con un accento tipico del paese d’origine, ma intercalando comicamente qualche vocabolo nell’idioma locale, l’occhio dei pesci appena pescati e gettati sul banco, come il più vivido e brillante di tutta la costa Tirrenica. Orate, saraghi, dentici e purpuree triglie di scoglio sono adagiate su un giaciglio di ghiaccio tritato intanto che le lunghe antenne di un paio d’aragoste ancora vive fanno capolino da un secchio di plastica verde appeso ad un gancio del bancone, nelle vicinanze di una cassetta di legno colma di grigio-argentee acciughe, meno pregiate ma non per questo meno apprezzabili. Una grande, lucidissima razza di colore marrone scuro occupa spavalda un angolo del banco e polpi e seppie attorcigliano i loro tentacoli all’interno di un contenitore di polistirolo.
Il furgoncino del formaggio esibisce grandi forme di parmigiano, alcune delle quali sapientemente spaccate in due dall’abile mano del caseario, e pile di caciotte e pecorini stagionati, regalando agli avventori saporite scaglie a scopo puramente pubblicitario.
Il clangore delle stadere d’ottone testimonia la vivacità degli scambi e gli acquisti delle massaie sempre pronte a baccagliare sul prezzo o sul peso, mirando ad un possibile abbuono che spesso l’ambulante concede molto volentieri.
Più in disparte, i banchi dell’abbigliamento e delle pezze di stoffa: i mercanti, più pacati e meno coloriti, si limitano ad esporre la merce ai passanti invitandoli alla prova ed all’eventuale acquisto, garantendo la qualità superiore della loro mercanzia.
Nella stessa zona, colpisce il luccichio della miriade di pentole, bicchieri e posate, caratteristico del banco degli articoli per la casa al quale si presentano, quasi esclusivamente, acquirenti alla ricerca di qualcosa di ben definito: bicchieri per ripristinare il servizio scompagnato, pentole o casseruole di misura idonea alla preparazione di una pietanza particolare o posate per rinnovare il cassetto della credenza. Vi spiccano soprammobili di dubbio gusto a forma di strane verdure, finti forchettoni e posticci macinini da caffè.
Un caso a parte è il camioncino dell’utensileria su cui è possibile trovare gli arnesi più disparati: dalle affilatissime “frullane” per falciare il fieno ai coltelli svizzeri multiuso, dallo scalpello al martello, dalla pala al piccone, insomma, tutto ciò che può servire per i lavori manuali e per il fai da te. I più interessati agli articoli in questione sono certamente i rari uomini che, non impegnati dal lavoro per ferie, permessi o chissà cosa d’altro, si trovano a bighellonare per il paese nella mattinata dedicata al mercato, o gli anziani pensionati memori d’attività oramai cessate.
Feo ed io, lasciate le bici alla rastrelliera vicino alla chiesa, ci mescoliamo tra la folla e ci troviamo immersi nel brusio di sottofondo, rotto dalle urla degli stravaganti venditori che reclamizzano la propria merce come la migliore sulla faccia della terra. Non siamo attratti dai banchetti né dalla merce in esposizione, ma la passeggiata può servire a prendere coscienza del luogo in cui viviamo, visto che, con la scuola, in inverno, non abbiamo mai la possibilità di intervenire a questa specie di raduno, molto importante per chi conduce vita di paese.
Nell’andirivieni generale ci soffermiamo con amici e conoscenti per scambiare qualche frivolo commento sull’incombente estate mentre, qualcuno dei più intimi ci chiede ragguagli sul risultato degli esami appena affrontati, sugli studi che intraprenderemo alle scuole superiori e notizie sulle rispettive famiglie.

domenica 10 marzo 2013

quarto 2° di 2

quarto 2/2
Il gigantesco schermo bianco domina la platea, illuminata dalla luce flebile di piccoli lampioni versione economica, e tra breve si animerà di figure altrettanto gigantesche che incomberanno su ammutoliti spettatori. Le poltroncine si stanno riempiendo di pochi turisti e la prima notte di quiete, vada, da giugno a settembre, adolescenza, etsmolta gente del paese, compresi alcuni conoscenti che saluto da lontano. Nell’attesa Flipper, sistemato nella prima delle tre file di nostra competenza, vicino a Franco, si è rivolto indietro, appoggiando il sedere allo schienale della poltroncina di fronte alla sua e tiene banco con storielle divertenti e barzellette. Qualcuno cerca d’interromperlo, ma non c’è verso, il centro della scena è suo, almeno fino all’inizio del film. Viene interrotto solo dall’affievolirsi delle luci e si mette finalmente seduto, ma non è ancora il momento. Ci sorbiamo la programmazione della settimana successiva, un po’ di pubblicità e, finalmente, il leone ruggente della Metro Goldwin Meyer annuncia l’inizio della proiezione.
Non è la prima volta che vengo al cinema con Martina, ma è la prima volta da quando…
Con la coda dell’occhio controllo la situazione: ha i gomiti sui braccioli della poltroncina, e le mani sul grembo. Poco dopo l’inizio del film, non resisto alla tentazione e cerco disperatamente un seppur impalpabile contatto fisico. Con lo sguardo che non si distoglie dalla proiezione, muovo la mano sinistra nell’ombra verso di lei, sfioro involontariamente la gonna corta, lei ha un impercettibile sussulto, poi trovo la sua mano destra e la stringo: è freddissima, nonostante la tiepida serata. Ci guardiamo: i variopinti bagliori generati dallo scorrere della pellicola, provocano, nei suoi grandi occhi, caleidoscopici giochi di luce che accendono la mia fantasia. Le palpebre, coronate da lunghe ciglia naturalmente arricciate, calano ad intervalli regolari celando ritmicamente lo spettacolo alla mia vista, al pari di minuscoli sipari di un altrettanto minuscolo palcoscenico. La sua mano sotto la mia si muove e si libera, il palmo della mia mano è ora sulla gonna e percepisco la forma di ciò che essa cela pudicamente. È lecito aspettami che tolga la mia mano da lì, invece la copre con la sua, che è ancora fredda, accettando il contatto. Ci rimettiamo a vedere il film, ma la mia mente annega in ardenti emozioni e si strugge come in un fiume di lava che cola da un vulcano in piena fase eruttiva.
Le scene del film si susseguono, una dopo l’altra, sul grande schermo e l’intreccio si dipana tra l’amore tormentato di una donna per un uomo, una bellissima amante ed un amico poco affidabile: a dire il vero del film m’importa ben poco. Potrebbero dare anche Tom & Jerry, lo apprezzerei ugualmente, rimarrei così per ore intere. Giro verso l’alto il palmo della mano che accoglie così il palmo della sua mano non più fredda, le dita s’intrecciano delicatamente provocando piccole indefinite emozioni. Fulcro della nostra intesa sono leggeri movimenti delle dita che interpretano un alfabeto in codice inventato sul momento e noto soltanto a noi.
Fine del primo tempo. All’accendersi improvviso dei lampioni, le nostre mani si lasciano di scatto in un moto quasi istintivo, come se dovessimo nascondere i nostri sentimenti da chissà quali occhi indiscreti. Ne approfitto per una capatina al bar.
«Noccioline? Bibita? Gelato?» – le chiedo.
C’è ressa, al mini-bar del cinema e, aspettando il mio turno, scambio poche battute con Feo:
«Hai visto quant’è carina?» – i suoi occhi sprizzano gioia ed eccitazione, mentre me lo chiede – «Mi piace: vorrei dirglielo!»
«Che cosa aspetti? Questo è il momento giusto! La penombra del cinema crea sempre un’atmosfera particolare.»
«Non ci riesco. Non trovo il coraggio!» – ribatte quasi rammaricandosi.
«Tu? Feo, tra noi due tu hai sempre cercato il primo approccio, tu hai rotto il ghiaccio e tu sei lo sfrontato!» – lo conforto ridacchiando – «Il ruolo del timido non ti si confà perciò, lascialo a me!»
«Dici bene tu! Martina è una ragazza dolcissima, vi trovate a meraviglia e, come se non bastasse, ti ha risparmiato anche la fatica di fare la prima mossa.» – ribadisce pronto.
«Temo di non piacerle e di rovinare tutto!»
«E tu non dirle niente. Fai un gesto carino, provoca in lei una reazione… Ma che te lo dico a fare, sai meglio di me come comportarti!»
«Va bene!» – afferma con una violenta espirazione a labbra semichiuse, come quando riprendiamo fiato agli allenamenti.
Ritorniamo al posto nel momento in cui le luci dei lampioncini si affievoliscono, giusto in tempo per assistere all’inizio del secondo tempo. Porgo a Martina uno dei due cornetti all’amarena; nel gioco di luci ed ombre prodotto dal cono luminoso del proiettore, scartiamo i rispettivi gelati. Prima che io abbia il tempo di portarmelo alle labbra, lei mi cattura la mano ed avvicina la bocca semiaperta prendendosi il piacere del primo morso. Mi offre il suo perché faccia altrettanto. In sfumature come questa, Martina è impareggiabile ed il gelato assume una fragranza che genera sensazioni per me assolutamente nuove. Terminato il gelato, è lei che appoggia la mano destra sui miei jeans, poco sopra il ginocchio, dove trova la mia pronta ad accoglierla ed a riprendere il dialogo in codice da dove lo avevamo lasciato. Il film continua a scorrere inesorabile, ma lo seguo svogliatamente, intento come sono nello scambio di messaggi digitali a fior di polpastrelli e di falangi che s’intrecciano. Non mi distolgo neanche quando, durante le scene più scabrose, Flipper ed altri si lasciano andare ad urletti e brevi fischi d’approvazione provocando le proteste della platea tutta. Martina reclina la testa sulla mia spalla: in un lampo, ascendo al settimo cielo. Valico i confini della Via Lattea ed Orione, Andromeda, Cassiopea, Sirio sono ormai ad un tiro di schioppo. Nel ricadere dal mio viaggio interplanetario, mi ritrovo sulla poltroncina del cinema. Con un movimento del tutto naturale, abbandono la sua mano sui miei jeans per cingerle le spalle con il braccio sinistro, pur col timore di rovinare l’atmosfera. Non si muove, anzi si accoccola ancora di più nell’incavo tra il mio collo e la spalla e non posso esimermi dall’accostare a mia volta il capo sulla sua testa. Mi scopro a sorridere compiaciuto per il solletico provocato da una ciocca dei suoi capelli sulla pelle della mia guancia. Le sue chiome emanano una fragranza che ricorda un rigoglioso giardino esotico in piena fioritura: effluvi di zagara, gelsomino e mughetto si mescolano in un cocktail dall’aroma inebriante. Con la destra cerco, con successo, la sua mano sui miei jeans.
Avrei voluto che il film durasse all’infinito invece, ahimé, scorrono i titoli di coda. Solleva la testa: ci guardiamo. È in brodo di giuggiole ed io più di lei.
Potenza dell’età e dei primi approcci amorosi!
«Oggi pomeriggio, per un interminabile momento, ho temuto di passare la serata senza di te.» – mi confida guardandomi con occhi languidi – «Pensa che cosa mi sarei perduta!»
«Anch’io l’ho temuto! Ma non pensarci più!» – la conforto.
«Ti è piaciuto il film?» – mi chiede distrattamente.
«Certo!» – rispondo sornione.
«Io non l’ho proprio seguito,» – mi confessa abbassando pudicamente lo sguardo – «ho avuto tutt’altro per la testa, stasera.»
«Peccato che sia durato così poco!» – le svelo prendendo il suo mento tra le dita – «Le nostre mani non si sono stancate mai di sfiorarsi, di toccarsi, d’intrecciarsi in un affiatato duetto, come se l’avessimo provato e riprovato all’infinito, per raggiungere la perfetta esecuzione. Come potevo pensare alla trama del film!»
«Non dire altro, il tuo cuore lo ha già detto per te. È stato bellissimo percepire il suo instancabile ritmo attraverso la camicia: ogni tanto il battito accelerava per poi calmarsi di nuovo. Ho scoperto che spesso batteva all’unisono col mio. Chissà…»
«Eri tu!» – la rassicuro – «…o meglio, eravamo noi. Per la prima volta ti ho sentito così vicina.»
«Hai usato la parola “noi” riferito a noi due come una cosa sola. Non lo avevi mai fatto. T’invidio un po’» – sorride – «ed avrei voluto farlo io per prima.»
«Ma è stato proprio così. Tu hai dato lo spunto. Il mio cornetto è diventato il tuo e viceversa. Così è successo, quando ti sei accostata a me: è stato come se io fossi seduto sulla tua poltroncina e tu sulla mia o, meglio, come se la poltroncina fosse solo una per due. Due palline di gelato sul medesimo cono, due mani che si lavano l’un l’altra sotto il comune getto d’acqua, due anime in un nocciolo. Io più te uguale noi!»
«Sei gentile ad attribuirmi un merito che, in realtà, è attribuibile esclusivamente a te!»
Si accendono definitivamente i lampioncini ad interrompere uno sdolcinato idillio nel quale non mi sarei riconosciuto, se non lo avessi vissuto in prima persona. Finalmente abbiamo ripreso la posizione eretta sulle scomode poltroncine a stecche verticali di legno, mentre gli altri sono già nel corridoio laterale, ed indugiamo ancora un po’ seduti, come per trattenere il più a lungo possibile le emozioni recentemente scoperte. Sospiro, mi alzo, le porgo la borsetta, prendo il golfino dalle sue ginocchia e glielo sistemo sulle spalle come fosse una piccola mantella ed ella, alzandosi a sua volta, mi ripaga con un abbraccio strettissimo appoggiando la testa sul mio petto senza alcun timore di compromettersi agli sguardi curiosi di eventuali conoscenti. Il cinema è oramai quasi vuoto e, mio malgrado, con una smorfia di disappunto, le indico con la mano destra la strada verso l’uscita. La ghiaia scricchiola di nuovo sotto le scarpe e seguiamo la corrente mano nella mano nel ricongiungerci al gruppo.
Per la strada che ci conduce in piazza, i commenti dei più sguaiati si soffermano, ovviamente, sulle poche malcelate scene di sesso e qualcuno si dimostra particolarmente in vena nel colorirli con dozzinali commenti che provocano la disapprovazione delle ragazze. Feo non si stacca un attimo da Fulvia che dimostra di non disdegnare le sue attenzioni. Sulle panchine in cemento della grande piazza alberata, c’intratteniamo per gli ultimi commenti e per organizzare la giornata successiva. Martina è seduta con le gambe accavallate, la destra sopra la sinistra dondola armoniosamente al ritmo di un’inesistente melodia, ed io sono in piedi vicinissimo a lei con il fianco sinistro appoggiato allo spigolo dello schienale della panchina, sbocconcellato dall’usura. Tania ed Isabella sono sedute vicino a lei, mentre gli altri sono in piedi disposti a semicerchio di fronte a noi. Feo è leggermente in disparte, con le mani dietro la schiena, appoggiato al tronco cavo di un grande platano e Fulvia gli sta di fronte, in piedi: parlano fittamente e non partecipano assolutamente alla nostra conversazione.
Tra un commento e l’altro Antonio se ne esce con una battuta delle sue:
«Mi sa che qualcuno, stasera ha visto poco del film!» – ed ammicca in direzione del platano dal tronco cavo, dove è in corso un dialogo dai toni molto confidenziali. La sarcastica battuta è indirizzata alla nuova coppia di tortorelle, ma, evidentemente, ci sentiamo anche noi oggetto della frecciatina: Martina storce il collo volgendosi verso l’alto e, mentre la coda di cavallo spenzola aldilà della spalliera della panchina, ci scambiamo una complice, accomodante occhiata. Feo lo fulmina con un saettante sguardo, intanto che Fulvia china timidamente il capo: la penombra non mi consente di accertarlo, ma sono pronto a scommettere che le sue guance sono imporporate da un pudico rossore. È mezzanotte passata da poco, quando un corale “buonanotte” scioglie la compagnia spedendo ognuno verso la rispettiva dimora. Feo, Fulvia, Martina ed io c’incamminiamo sul breve tratto di strada comune ma, quando noi due svoltiamo a destra, verso la via di casa, Fulvia procede dritto sulla strada principale e Feo, invece di svoltare a sinistra, verso casa sua, la segue come un’ombra con l’intento di accompagnarla fino al portone. Un ulteriore saluto di commiato ci congeda dalla potenziale novella coppia. Ci soffermiamo ancora qualche minuto ai piedi del tronco del fido pino secolare, testimone delle nostre effusioni notturne, nella penombra del giardino, poi Martina, di malavoglia, imbocca le scale buie ed io m’incammino verso casa solo dopo averla vista scomparire dentro il portone.
Nel brevissimo tragitto che mi separa da casa, illuminato dalla luce lattiginosa dei lampioncini, filtrata dal fogliame degli alberi che si protendono dai giardini prospicienti la via, mi sorprendo a rimuginare sul recentissimo passato e, soprattutto, sull’esperienza di Martina e me. Fino a meno di quindici giorni fa eravamo amici inseparabili, tra noi la differenza dei sessi non era mai emersa, nel senso che non ci eravamo posti il problema. Eravamo elementi del gioco né più né meno degli altri componenti della compagnia, con i quali spendevamo la maggior parte del nostro tempo libero. Più legati tra di noi, ma solo per il fatto di essere cresciuti insieme, risiedendo in abitazioni vicinissime tra loro. Un po’ come con Feo con l’unica differenza che, con lui, l’inscindibile amicizia è nata in prima Elementare e, da compagni di banco, abbiamo condiviso gioie e dolori, successi e brutti voti, che hanno caratterizzato la nostra carriera scolastica. Nell’inevitabile fenomeno di attrazione verso l’altro sesso non avevo mai pensato alla figura di Martina e mai mi era passato per la mente che potessimo avere bisogno di scambi più affettuosi. Non mi ero mai preoccupato di notare se fosse carina o se mi piacesse; magari lo avevo pensato per Isabella o per Tania, per restare nell’ambito delle più confidenti, ma non per lei. Adesso mi appare sotto una luce incantata, ci stiamo scoprendo molto affiatati e passiamo insieme la maggior parte del tempo libero, pur non privandoci di quel po’ d’indipendenza necessaria per trarre il massimo del piacere dalla nostra storia.
Nel frattempo ho attraversato il cancello, il giardino buio e sono giunto al portone di casa; entro, faccio le scale in silenzio e mi accingo alle operazioni di rito, prima di coricarmi per una notte di meritato riposo.
L’ultimo pensiero, prima di addormentarmi, è ancora per lei.